Inaugurazione
mercoledì 30 settembre, h 19,00
Scalinata Borghese
Genova

Il tema

Prof. Federico Boni, Dott. Marco Solaroli
Università Statale di Milano

Dovendo introdurre questo sito, tanto vale cominciare davvero dall’inizio, cercando di capire di che cosa parliamo quando parliamo di comunicazione o, meglio, di in/comunicazione. Il termine “comunicazione” deriva etimologicamente dal latino communis (comune), composto di cum (insieme) e munis (obbligazione, dono). Alla base della comunicazione, almeno nelle sue origini etimologiche, ci sono quindi le idee di reciprocità e di vincolo, che sono anche alla base – guarda caso – della vita sociale. Va detto subito che questa idea della condivisione non deve necessariamente evocare scenari idilliaci dove tutti vivono in una “comunità felice”, solidali e premurosi gli uni nei confronti degli altri: spesso, anzi, comunicare significa entrare in conflitto, litigare, essere in disaccordo. È un po’ come quando si dice “tra quei due non c’è dialogo”: come se il dialogo fosse solo fraterno e pacifico scambio di vedute, e non invece (anche) il luogo dove si cerca di imporsi nei confronti dell’altro, di far valere le proprie ragioni, magari screditando quelle altrui.

A questo punto, possiamo dire di più: e cioè che, come recita un vecchio adagio degli studi sulla comunicazione, “non si può non comunicare” (non si può in-comunicare?). In ogni situazione le persone comunicano, che lo vogliano o no: quando arrossisco in preda all’imbarazzo, quando le mie mani tremano per l’emozione, quando la mia voce è rotta per la commozione… Ogni comportamento che manifestiamo di fronte ad altre persone ha valore comunicativo, da quelli volontari a quelli involontari; da quelli che mettiamo in scena a quelli che preferiremmo evitare ma che non possiamo controllare.

Possiamo anche prendere per buono questo postulato, almeno per ora. Del resto, tutto attorno a noi sembra comunicare incessantemente. Più che di non-comunicazione, sembrerebbe di trovarsi di fronte a continui eccessi di comunicazione, dove anche i momenti di silenzio riportano in realtà a un silenzio ingannevole, a un silenzio che vuole qualcosa in cambio: come le copertine bianche dei periodici, le pubblicità in bianco e nero; gli spot senza sonoro, il cui silenzio è più che mai assordante; o i politici che si imbavagliano per “urlare” le proprie rivendicazioni. Di nuovo, un silenzio che è rumore, un eccesso di comunicazione.

Insomma, per rimanere fedeli al titolo della mostra, In-comunicazione, sembrerebbe proprio che anche ciò che all’apparenza non comunica, in realtà, abbia sempre qualcosa da dirci, magari fingendo di non dircelo. Si mette, cioè, in comunicazione. Ma a questa dimensione, che potremmo definire di mala fede comunicativa, se ne affianca un’altra, che non è più di finzione, ma semmai – al contrario – di “smascheramento”: si tratta di un’operazione dove il contenuto comunicativo viene “ricodificato”, per svelarne le reali implicazioni o per modificarne il significato. In questo modo, quello che sembrerebbe un limite, la non-comunicazione, diviene il contrario, viene messo in comunicazione, attraverso il ri-uso, la ricodifica.

Un esempio di questa “tattica” è quello di alcune modalità comunicative tipiche di certe sottoculture giovanili, come la sottocultura punk. Una strategia comunicativa per cui sono divenuti famosi i punk è stata quella di prendere un oggetto fortemente connotato come tradizionale e “borghese” e usarlo in maniera innovativa, irriverente e iconoclasta. L’esempio che più spesso si cita per illustrare questa pratica è quello della spilla da balia, usata dai punk come piercing piuttosto che per l’uso per cui era stata originariamente concepita (unire i lembi di un pannolino o quelli di una gonna): l’utilizzo “deviante” della spilla ha finito per produrre un altro oggetto, con usi e significati completamente differenti.

Qualcosa di molto simile avviene nel mondo delle arti, che anzi hanno inaugurato questa strategia, soprattutto nelle pratiche comunicative delle avanguardie. Si pensi all’orinatoio di Duchamp, trasformato da umile oggetto del retroscena della vita quotidiana a opera d’arte (rinominata Fontana). Nella comunicazione artistica tutto ciò che è apparentemente incomunicabile – o incomunicante – costringe a soffermarsi su di esso per cercare di comprenderlo, uscendo da schemi e codici consueti, per sperimentarne di nuovi. La Fontana di Duchamp ci lancia un messaggio che sembra un nonsense: “Non sono un’opera d’arte, eppure sono un’opera d’arte”. E così, noi siamo costretti a rivedere le nostre categorie – su che cosa è arte, su chi è l’artista, su cosa significa comunicare (o incomunicare).

I lavori presentati in questo volume fanno proprio questo: prendono oggetti, luoghi, suoni più o meno incomunicanti e, ribaltandone i codici, li fanno parlare. Soprattutto, li fanno diventare altro. Per capirli. Per farceli capire. Per individuarne nuovi possibili significati, nuovi possibili usi. Il tono è spesso polemico, provocatorio, ma del resto lo si è già visto: comunicare vuol dire soprattutto buttarsi nella mischia, accettare il conflitto. In definitiva le arti, e quindi anche le opere presentate nel volume, nella loro continua ricodifica e deformazione della realtà, ce la fanno capire meglio. Magari facendoci scontare un certo disagio, un certo spaesamento. Ma è un prezzo che è bene pagare: del resto, l’arte non imita la vita. L’arte – quella migliore – irrita la vita.

 

E veniamo all’architettura. In un celebre capitolo di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo Dom Claude Frollo, arcidiacono di Notre-Dame, ammira la cattedrale dalla finestra e, con un incunabolo tra le mani, esclama: Ceci tuera cela, questo ucciderà quello. Siamo alla fine del primo capitolo del Libro Quinto; nel secondo capitolo, intitolato appunto Questo ucciderà quello, Hugo riflette su questa frase di Frollo, spiegando le parole dell’arcidiacono: “il libro ucciderà l’edificio”, “la stampa ucciderà l’architettura”. Hugo spiega come l’architettura sia sempre stata il grande libro dell’umanità, la scrittura universale della nostra civiltà. Fino al quindicesimo secolo. Fino a Gutenberg. Con l’invenzione della stampa, con l’atto fondativo dei mezzi di comunicazione di massa, tutto cambia: alle lettere di pietra di Orfeo si sostituiscono le lettere di piombo di Gutenberg. Il libro di pietra cede il posto al libro di carta, più solido, più duraturo.

In effetti, noi sappiamo che le cose non sono andate esattamente come previsto da Hugo, e dal suo alter ego narrativo. È vero che la stampa ha introdotto mutamenti epocali nella nostra cultura, ma la sua diffusione non ha sostituito l’architettura nel ruolo di “scrittura della civiltà”. Certo, la lotta è dura, forse impari: i media sono divenuti col tempo i bardi della nostra cultura, ma non ne sono certo i soli narratori. Forse l’architettura non ha un ruolo centrale nel raccontare la nostra società, ma è indubbio che mai come oggi si faccia un gran parlare dell’architettura, degli architetti e degli edifici iconici che spesso significano il riscatto di aree urbane depresse o di città e paesi esclusi dai tradizionali circuiti turistici.

Quello che sta succedendo oggi è, in qualche modo, un po’ il contrario di quanto temuto da Frollo: non solo il libro non ha ucciso l’edificio, ma forse contribuisce a costruirlo. Questo costruisce quello, la stampa costruisce l’architettura. E non solo la stampa, ma i media in generale: il cinema, la televisione, oggi anche le ICT, le information and communication technologies.

Con questa eccedenza comunicativa, molto simile a quella di cui si parlava all’inizio, cambia il modo non solo di conoscere l’architettura, ma anche di fruirla: se in un’epoca “pre-mediatica” si fruiva l’artefatto architettonico muovendosi all’interno dei suoi spazi, oggi lo si può fruire allo stesso modo in cui si può fruire di qualunque altro dato informativo, leggendone sui giornali, guardandolo nelle fotografie o in televisione, o al cinema.

L’architettura viene prodotta dai media non solo attraverso le loro rappresentazioni, ma anche attraverso le loro storie e i loro discorsi. Oggi gli architetti, sempre più presenti sui giornali e in Tv, ci spiegano che i loro progetti parlano di “trasparenza”, di “leggerezza”, di “multiculturalismo”, ecc. L’architettura vive di discorsi, non ne può fare a meno, perché i discorsi legittimano l’opera e il suo autore, forniscono chiavi di lettura che si inseriscono nel confronto, nella negoziazione – e nel conflitto – con committenti e destinatari.

L’architetto stesso è star cinematografica e televisiva, celebrata dalla pop culture dei mezzi di comunicazione: Gehry diviene protagonista di un film di Sydney Pollack (Frank Gehry – Creatore di sogni, 2005), e viene parodiato in un indimenticabile episodio dei Simpson dove presta la voce per doppiare il proprio alter ego di cartone; Massimiliano Fuksas diviene testimonial per lo spot della Renault Scénic, spiegandoci nientemeno che la genesi della “nuvola” del suo progetto per il nuovo palazzo congressi a Roma, per poi riapparire parodiato in Crozza Italia nelle vesti di Massimiliano Fuffas.

C’è di più. In tutta questa eccedenza comunicativa dell’architettura, rimane da vedere dove si annidi l’in-comunicazione di cui si occupa questo volume. Anche qui, i testi e i lavori presentati sono molto chiari in proposito: a fronte di tutto questo gran parlare di architettura e di architetti, di questa mediatizzazione e spettacolarizzazione dell’opera-icona e dell’archistar, chi rimane fuori è l’utente dell’opera di architettura. Gli architetti parlano tantissimo di sé e delle loro opere, ma tacciono sugli utenti finali delle loro opere. Le immagini degli edifici escludono sistematicamente le persone e le loro attività, come agenti contaminanti della purezza dell’Architettura. Eppure, bisognerà pur dire che l’architettura è fatta non solo delle attività degli architetti, ma anche delle azioni dei fruitori degli edifici. L’architettura è prodotta sia dagli architetti che dai fruitori: dai primi tramite il design, dai secondi tramite l’uso. E nulla vieta che, così come l’architetto può anche essere fruitore, allo stesso modo il fruitore possa divenire in qualche modo architetto. Ad esempio, fruendo dello spazio architettonico in modi diversi da quelli pensati da chi tale spazio lo ha concepito.

Nella sezione di architettura di questo volume è appunto possibile vedere come si possono immaginare altri usi degli spazi architettonici e urbani. E ancora, è possibile vedere all’opera una critica della mediatizzazione e della spettacolarizzazione dell’architettura, i cui generi e le cui forme vengono prodotti e riprodotti dai generi e dalle forme dei mezzi di comunicazione e dalle loro narrazioni. Louis H. Sullivan, esponente di punta della Scuola di Chicago, è l’architetto a cui viene attribuita la celeberrima espressione “Form follows function”, la forma segue la funzione. Oggi, sulla base di quanto mostrano i testi e le installazioni presentati in questo catalogo, tale formula andrebbe forse rivisitata. Se è vero che molta dell’architettura contemporanea segue le forme delle narrazioni mediatiche, e dei discorsi che queste contribuiscono a produrre e riprodurre, forse si dovrebbe dire che gli spazi e gli invasi architettonici sono modellati su tali racconti. Form follows fiction.

 

Come l’architettura, così le arti visive contemporanee, e in modo paradigmatico la fotografia d’arte, sono disciplinarmente orientate a giocare in modo più o meno esplicitamente provocatorio sulla ri-appropriazione e la ri-articolazione dei significati attribuiti a spazi, corpi, momenti e oggetti (e alle pratiche sociali d’uso di tali spazi, corpi, momenti e oggetti). Così facendo ci offrono stimoli per ri-attivare (mettendole in comunicazione) le relazioni che sviluppiamo con gli ambienti urbani, gli arredi, gli strumenti, i movimenti, i suoni, i colori, i dettagli anche apparentemente in-significanti (in-comunicanti) della nostra vita quotidiana e dei contesti, pubblici e privati, all’interno dei quali diamo forma alla nostra esperienza del/sul mondo.

Ma più che sull’uso degli spazi (architettonici), nelle arti visive il focus è primariamente sull’uso dello sguardo, o meglio, sul consumo produttivo dello sguardo. Favorire una contemplazione fredda e distaccata significherebbe, in questo senso, soltanto perpetuare l’incomunicazione, e l’incomunicabilità. In questo contesto, invece, le pratiche d’osservazione non vogliono e non possono essere, meramente, passivi e assuefatti atti di consumo, ma richiedono, intrinsecamente, una compartecipazione attiva, un posizionamento dello sguardo creativo, produttore di senso.

Le opere qui esposte sono un piccolo invito a guardar(si) in questa direzione. Rappresentano interstizi nel flusso della vita urbana, fessure che destrutturano le macro-visioni e amplificano i micro-dettagli, ricercando un difficile equilibrio espressivo nella scelta di forme e strumenti che si rivelino tanto adeguati ad esprimere l’intenzione poetica dell’artista (e il suo implicito disagio) quanto efficaci a catturare, rallentandolo, il passaggio visivo del fruitore, suggerendogli percorsi inesplorati e potenzialmente forieri di fertili riconfigurazioni del proprio sguardo sul mondo. Fessure da cui guardare, e guardarci. Da cui poter assumere una posizione privilegiata e critica nell’osservazione della vita sociale, dando vita a collegamenti inaspettati, lasciando filtrare un raggio di luce che rivitalizzi i nostri occhi all’esterno, ma anche, potenzialmente, quelli dell’artista all’interno (in-tra-comunicazione), alimentandone una consapevolezza anche radicale. Sono creazioni che invitano ad una navigazione dello sguardo sui sempre più labili confini tra pubblico e privato, tra collettivo e individuale; che ricontestualizzano scene, momenti (la notte, il sonno) e oggetti d’uso quotidiano (una sedia, un cassetto, un muro), da un lato proiettando irrisolte tensioni interne all’esterno (lo sguardo della giovane donna nuda allo specchio), e dall’altro ricercando l’estensione simbolica dei confini tra “noi” e “loro”, quindi personalizzando l’alterità, facendola almeno in parte propria, favorendo la comunicazione e l’identificazione con l’altro, il “diverso”, con chi è così vicino, ma così lontano.

In quest’ottica anche le produzioni musicali qui presentate rappresentano un ponte di passaggio tra l’in-comunicazione, l’in-comprensibile, l’in-accettato e la comunicazione significativa. Un ponte che paradossalmente può essere percorso anche nel verso opposto, laddove anche giocando criticamente sulla meta-comunicazione (e quindi auto-riflettendo, in questo caso all’interno della dimensione sonora, sulle pratiche di in-comunicazione) si può contribuire a decostruire, smascherare e ricodificare la realtà.

 

Ma attenzione. Nei discorsi sull’arte contemporanea esistono almeno due zone fangose dalle quali le opere qui presentate tentano giustamente, in modi più o meno consapevoli ed efficaci, di tenersi a debita distanza.

Il primo punto problematico riguarda il rischio di non osare abbastanza per essere davvero e costruttivamente provocatori, finendo per scivolare, banalmente, in un vuoto artistico che nel migliore dei casi amplifica, e nel peggiore riporta acriticamente, il vuoto comunicativo. La luce gettata dalla (migliore) produzione artistica contemporanea, in particolare dalla fotografia d’arte, sui dettagli apparentemente banali, i movimenti corporei apparentemente inutili o “devianti”, gli spazi sociali apparentemente secondari, i gesti quotidiani inconsapevoli e ripetitivi alla base del senso di precarietà, alienazione e solitudine del cittadino globale mira a decostruire criticamente i discorsi egemonici, svelare significati o interpretazioni della realtà per definizione nascosti, con l’auspicio (si potrebbe obiettare, talvolta utopistico) di giungere ad una seppur parziale ri-appropriazione del proprio sguardo, corpo, spazio e tempo. Della propria abilità comunicativa. Se così non fosse, l’arte sarebbe puro esercizio di stile, fine a se stesso.

In secondo luogo, l’arte contemporanea viene accusata in modo ricorrente di oscillare fin troppo astutamente tra i due poli di un ipotetico continuum – la spettacolarizzazione e la politicizzazione – senza riuscire a raggiungere e mantenere un necessario bilanciamento (che le garantirebbe, tra l’altro, l’immunità dalle critiche dei detrattori). Se da un lato è fondamentale riflettere sul grado di consapevolezza della potenziale connotazione politica della propria opera, dall’altro per raggiungere più orecchie in ascolto (o catturare più sguardi) è cruciale che la poetica dell’artista sappia articolarsi con invidiabile equilibrio tra la dimensione etica e la dimensione estetica, evitando le facili strumentalizzazioni politiche e/o mediatiche.

L’opera di uno dei più noti, talentuosi e controversi street artists contemporanei, Banksy, è in questo senso rivelatrice e maestra, poiché prende vita da una sensibilità profonda che non è meramente artistica (l’arte per l’arte) né urlatamente politica (l’arte come denuncia) ma è piuttosto intrinsecamente “comunicativa”, ricerca consapevole dell’attenzione che, spesso sottolineando criticamente la distanza della nostra posizione di osservatori, ci invita provocatoriamente ad un inedito consumo produttivo dello sguardo.

Nella stessa direzione le opere qui presentate, rivelando le strategie d’uso creativo attraverso cui i soggetti possono forgiare progetti identitari attraverso la trasformazione degli spazi, dei discorsi e dei significati circostanti a partire da un’esplicita critica alla presunta incapacità di comunicare, ci invitano alla costruzione di un dialogo fertile con il tessuto sociale urbano, ci invitano a sviluppare una tensione creativa in cui la produzione (dell’artista) conti almeno tanto quanto il consumo (dello sguardo dell’osservatore). Ci invitano, cioè, a metterci in comunicazione.

Il Percorso

Roberto Ferreccio, Antonio Lavarello, Enrico Paroletti

Che cosa vale di più, il viaggio o la destinazione, il metodo o il risultato? A questa domanda
abbiamo provato a rispondere con una scelta concreta: costruendo una mostra a partire da un
laboratorio, affinché il progetto coincidesse con il processo e l’arrivo fosse davvero il compimento
di un percorso. È un piacere che ci siamo imposti, una regola che ha reso il gioco molto
più interessante, ancorché probabilmente più impegnativo. D’altronde fare un viaggio soli
non è la stessa cosa che farlo in buona compagnia e intessere relazioni è più produttivo che isolarsi
come tante monadi autoreferenziali: quindi non parliamo solo di un processo, ma di un
percorso condiviso e partecipato, dal quale è scaturito qualcosa che speriamo possa interessare
al pubblico, ma che prima di tutto ha arricchito chi vi è stato coinvolto, attraverso dibattiti critici
e fatiche organizzative. In questo senso è stata fondamentale la decisione di affrontare un
tema comune, nella fattispecie quello dell’incomunicabilità, perché l’incontro tra esperienze
diverse avvenisse in primo luogo sul piano dei contenuti ; gradito effetto collaterale e ossimoro
programmatico il fatto che si sia lavorato sull’incomunicabilità attraverso il massimo grado di
comunicazione.
Il progetto In/comunicazione non si configura quindi come una pura esposizione di prodotti
artistici - quelli che potrete trovare tra le pagine di questo sito - ma come un percorso
ampio e articolato che, tra maggio e settembre 2009, ha visto succedersi ed intrecciarsi un laboratorio
multidisciplinare e uno di allestimento, seminari teorici e conferenze divulgative. Se
i seminari - “Alte tecnologie applicate all’arte” tenuto dal Prof. Antonio Camurri di Casa Paganini
e “Incomunicabilità in sociologia” tenuto dal Prof. Federico Boni e dal Dott. Marco Solaroli
dell’Università degli Studi di Milano - hanno permesso agli artisti coinvolti nell’iniziativa
di approfondire il tema prescelto secondo diversi approcci, le conferenze - “Musica In/comunicazione”,
a cura dall’associazione La Barcaccia, e “Architettura In/comunicazione”, tenuta da
alcuni artisti partecipanti al progetto - hanno rappresentato l’occasione per iniziare ad aprirsi
alla città, confrontandosi con il pubblico sul tema del laboratorio.
Questo il modo in cui abbiamo operato, nella speranza che il pubblico riesca ad entrare realmente
in comunicazione con ciò che incontrerà nella mostra.